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Dandy e gagà, veri e finti eleganti

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“Il  gagà sorride spesso, ma resta una smorfia senza ironia: è il sorriso del parvenu. Il gagà è certo un fenomeno latino, ma da quando la moda italiana si è internazionalizzata, è diventato un prodotto da esportazione, archetipo sovente frainteso in altri paesi…

La sua è una vita annegata nella moda. I nuovi gagà si pavoneggiano al Pitti Uomo di Firenze con i pantaloni stretti e corti, le scarpe di pelle senza calzini, le giacchette corte e le sagge barbe rigogliose. Abbronzati anche di inverno, non mancano mai un selfie quando l’occasione lo richiede. Perché è facile essere gagà su facebook”. (dal capitolo “Il gagà – l’eterno immaturo” di Massimiliano Mocchia di Coggiola, nella raccolta di saggi “Dandy moderni e altri scritti sull’eleganza”, edizioni Stilemaschile, 2015). Il termine esatto per descrivere, se proprio vogliamo etichettarli con una definizione, questi protagonisti del mondo della moda maschile che rimirano, equipaggiati di sorriso d’ordinanza, nello specchio del web, soprattutto di Instagram, è proprio questo: gagà.

Cos’è un gagà?
È una derivazione del dandy, termine che viene usato quasi sempre a sproposito; più colorato, aggressivo, superficiale. È uno schiavo della moda, da cui mutua gli elementi più trasgressivi e vistosi e giganti. È convinto di essere unico e irripetibile. Ma soprattutto, e qui sta il guaio maggiore, crede di essere un uomo elegante, un arbiter elegantiarum. Ma non ha nulla di elegante, affatto. Purtroppo di gagà ne sono pieni gli schermi dei nostri cellulari e dei nostri pc. Il lato maggiormente negativo del gagà è la convinzione: nessuno potrà instillargli alcuna insicurezza. Il lato positivo è la sua gioia di vivere, la sua empatia. Il gagà è simpatico, quasi sempre. Sorride e con il suo sorriso evidenzia tutta la sua vacuità, la leggerezza di un fanciullo pieno di vita e di speranza. Il lato tragico, però, e c’è anche questo, è che il gagà ha spesso superato i cinquant’anni e non vuole saperne di mettere la testa a posto (non sulle spalle, come diceva Totò)… E va fiero della sua approssimazione. Dice che le regole vanno trasgredite senza conoscerne neanche una. Il gagà non ha cultura; è un eterno adolescente che non ha nulla da insegnare ma proprio per questo, per uno dei paradossi della nostra epoca, viene preso per Maestro! Ed ecco qui spiegata la rovina disastrosa e inarrestabile dello stile maschile del mondo occidentale degli ultimi 25 anni. Ci sono certo uomini eleganti, per fortuna, ma vogliamo qui parlare di quello che viene mostrato nella vetrina più grande del pianeta, il web. Se avete la pazienza, e lo stomaco, di leggere le classifiche (inutili, siamo d’accordo) degli uomini più eleganti del globo, vedrete in cima uomini che sino a qualche decennio fa non sarebbero stati neanche fatti accomodare in un ristorante di provincia. Personaggi che affastellano uno sull’altro elementi assolutamente estranei tra loro, che mischiano il formale con lo sportivo, il militare con il pacifista, l’occidentale con l’orientale, con inappellabile sicumera. Anche qui, gli “analfabeti di ritorno” costituiscono la maggioranza. Analfabeti perché l’abbigliamento è un linguaggio, con una sua grammatica e un suo lessico. È stato forse insieme al cinema (la prima realtà virtuale, mitopoietica), la più importante espressione di massa del ‘900.

Alla base di tutto: le regole
Ha delle regole, il vestirsi, come molti hanno avuto modo di scrivere. Tra tutti, il sommo Honoré de Balzac, che nel “Trattato della vita elegante” riduceva il macrocosmo della vita maschile (anche e non solo l’abbigliamento) alla formula UNA: unità, nettezza, armonia. ll bene non ha che una forma, il male ne ha mille (Balzac). Quindi basta alle rivisitazioni (dal sarto come dal cuoco), alle personali interpretazioni. Le regole esistono e vanno rispettate, per non vivere da “bruti, ma per seguir virtute e canoscenza…”. Se si va a capo prima della fine di una riga non è fare poesia. Se si indossa una giacca da smoking con pantaloni mimetici non si è trasgressori ma solo analfabeti. Perché per ogni capo ci sono delle regole, di costruzione (i grandi sarti sono gli ultimi depositari di questo sapere classico) e di abbinamenti. Nessuno di noi, ahimè, è il Duca di Windsor o Gianni Agnelli.  Vale anche la pena di citare la sentenza di Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707 –1788) “Le style est l’homme même”, che pronunciò nel 1753 durante la cerimonia di ammissione all’Académie française. “Lo stile è l’ordine e il movimento che si mettono nei pensieri”. Lo stile, anche qui, inteso in senso lato, nelle letteratura e nell’arte, nella vita tout court e quindi, anche, nell’abbigliamento. Tanto che Tatiana Tolstoi, nipote del celebre romanziere, mise proprio la frase “Lo stile è l’uomo” prima di ogni ritratto di persone eleganti da lei conosciute, nel libro più bello che sia mai stato scritto sul tema: “Manuale di Eleganza Maschile” (1988, Bompiani).

Il dandy e gli abiti
L’abito ci posiziona nel mondo. Non a caso gran parte dell’abbigliamento dell’uomo occidentale ha derivazione militare. E ogni lavoro, ogni incarico professionale, ha o aveva un suo stile preciso. Come un proprio linguaggio verbale, paraverbale e non verbale (di cui fa parte l’abbigliamento).

Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero, diceva Oscar Wilde.  Ecco, l’abito è la maschera sociale per eccellenza. Si indossa la divisa di ciò che si vorrebbe essere, o almeno di come si vorrebbe essere percepiti.
Perché vestendosi ci si conosce. Il lago in cui affoga Narcisio non è altro che uno specchio, in cui si guarda per conoscersi e conoscere. Si avvicina allo “specchio d’acqua” finché ci cade dentro. Ecco cosa fa il dandy. Nella ricerca spasmodica di sé, cade rovinosamente. Talvolta perisce, altre ne esce malconcio. Wilde e Brummell (il dandy par excellence) finirono i loro giorni in povertà.
Perché il dandy è il parossismo dell’eleganza. Essere dandy è vivere una vita votata al fallimento. Il dandy non è estroso ed estroverso come il gagà. Questi accumula senza ratio mentre il dandy lavora in sottrazione. Come un monaco o un samurai (Ivano Comi), il dandy ha un codice severo e irrinunciabile di comportamento e di abbigliamento. Il dandy è un ricercatore dell’assoluto (Luca Federico Garavaglia).
Gli abiti, per il dandy, non devono avere mai l’aria nuova. Non si usano mai troppi colori, anzi. Contrariamente a quello che si pensa, il dandy è un asceta dello stile.
Mai vorrebbe essere scambiato per un nouveaux riches. Per questo spesso frequenta mercatini dell’usato. Magari ha centinaia di cravatte, ma ne usa pochissime. Insomma, bisognerebbe perseguire per legge chi usa la parola dandy a sproposito. Il dandy è un reazionario, si adatta al quotidiano ma non lo accetta. Gozzano o D’Annunzio o Malaparte lo erano, tanto per fare esempi alti. Il dandy è un artista nella sua accezione più alta. Non ha negozio da pubblicizzare o marca di scarpette da ginnastica da rappresentare. È lui stesso il suo lavoro. Mentre il dandy possiede (le cose e la sua stessa vita) il gagà viene posseduto (dalla sua ansia di apparire, dalla sua voglia di stare sempre sull’onda). “Habere, non haberi” (D’Annunzio ne Il Piacere).

A cura di Alfredo de Giglio, direttore di Stilemaschile.it

Tratto da Uomo&Manager di Giugno 2018