La mente segue lo schermo, ma attenzione a non esagerare!
I lockdown pandemici ce lo hanno dimostrato. Ormai gli schermi sono diventati il nostro luogo di lavoro, l’angolo della distrazione, la piattaforma di condivisione di una passione, la finestra dei videogiochi, la vetrina di YouTube. Ma attenzione: questo processo non è sempre fluido perché l’attivazione delle personalità multiple che risiedono in noi rischia di generare stati quasi schizofrenici. Basta guardare le persone in un treno o in una metropolitana.
Spesso il piacere si tramuta in ansia quando non riusciamo a fare tutto quello che ci prefiggiamo contemporaneamente: lavorare, pensare ai figli, curare le amicizie. Ma tutto questo non succede più solo nella vita reale di tutti i giorni, ma anche in un mondo parallelo, quello della Rete. Anzi: perché in uno solo? In tanti, molti, tutti gli universi possibili dei nostri molteplici profili social.
Vi sembra impossibile? Forse adesso lo è, ma pensate a quando avevate carta e penna ed un solo foglio per scrivere alla persona del cuore o al migliore amico. E riflettete poi a quanti documenti avete anche solo sul desktop del vostro computer, a quanti post avete pubblicato o a quanti messaggi avete inviati nell’ultimo mese. Non dimentichiamolo mai: nel mondo dei bit, le possibilità di moltiplicazione sono infinite.
Ecco perché ci troviamo spesso a rincorrere i nostri fantasmi digitali a dispetto delle esigenze materiali (l’alimentazione, il lavoro, le amicizie). Pensate al cloud computing: abbiamo talmente esternalizzato la memoria ed una parte importante del nostro database (compreso quello su noi stessi) da divenire dipendenti dalla Rete, da quel sistema tecnologico che crediamo di manipolare e possedere. Nel momento in cui ci troviamo privi di un’informazione fondamentale, cogliamo la natura della mutazione che ci sta investendo. Quanti di noi ricordano ancora a memoria i numeri telefonici degli amici o dei parenti più stretti?
Era già successo quando siamo passati dalla tradizione orale alla scrittura: stanno cambiando le modalità di memorizzazione e stoccaggio delle informazioni. Ma è proprio in virtù di questo “outsourcing”, di questa semplificazione dei processi di memorizzazione che si schiudono ai nostri orizzonti inedite possibilità di creazione.
Per quanto finalmente attori protagonisti sul palcoscenico delle reti, siamo ancora dipendenti da qualcosa e qualcuno. Come nel vecchio modello capitalistico. Solo che è diverso. Ci stiamo slegando dalle vecchie catene per indossarne delle nuove che hanno una caratteristica innovativa: per la prima volta nella storia siamo prevalentemente noi a scegliere (o a creare) la nostra fonte di dipendenza.
È per questo che l’idea stessa di alfabetizzazione nell’era delle reti e delle piattaforme diventa più complessa. Essere alfabetizzati non significa più solo saper leggere e scrivere. Significa, piuttosto, essere in grado di navigare tra le informazioni, di usare nuovi strumenti, di saper riportare sulle nostre stesse persone il ruolo di “mediazione culturale” che prima delegavamo ai pochi abilitati a diffondere la cultura. Il Web e la tecnologia sono molto più veloci. In un attimo hanno costretto l’intera industria culturale ad inseguire nuove regole del gioco.
Anche perché la Rete fa un lavoro semplice da descrivere, ma bellissimo e potente. Consente a chiunque di immettere innovazione da ogni punto. Ed ogni innovazione (non smetteremo mai di sottolinearlo) apre nuove idee, ci fa pensare che possiamo fare cose nuove o cose diverse. E, per quanto abbiamo visto finora, se dai a milioni di persone la possibilità di far cose che prima non potevano fare, le persone le fanno. Prima o poi ma le fanno.
È esattamente il contrario di quello che è successo fino ad adesso. Ciò che alla gente del tempo sembrava di bassa cultura (ad esempio, i romanzi d’appendice, quelli pubblicati a puntate sui giornali nella seconda metà dell’Ottocento), per noi è diventato un classico. Era l’era della scarsità: un’epoca che si è sviluppata per molti decenni sull’onda dei fotoromanzi o degli sceneggiati a puntate. Il meccanismo era sempre lo stesso: generare un’aspettativa in termini di attesa della puntata successiva perché era impossibile trovare una scelta alternativa di eguale rilievo.
Adesso, quest’era è finita. Se non facciamo in tempo a vedere la puntata della nostra serie preferita, abbiamo una miriade di strumenti per ritrovarla, su Netflix, Amazon, gli altri canali a pagamento o su YouTube. Così ci troviamo di fronte a un modello, quello dell’abbondanza, che mette in crisi diversi punti di riferimento con cui siamo cresciuti. L’abbondanza di prodotto culturale ci obbliga a cambiare il nostro approccio (siamo noi a scegliere cosa ci interessa quando ci interessa) e ci richiede capacità nuove, tutte da imparare.
Ma, soprattutto, ridefinisce l’idea del valore del prodotto. Ne abbiamo parlato tante volte per la parte economica: la stessa cosa sta succedendo per il prodotto culturale. Prima era scarso, e pagavamo il supporto: il disco, il concerto, il libro, l’enciclopedia. Oggi è abbondante, diffuso in rete con mille alternative possibili e tendiamo ad aspettarci che costi sempre meno o che diventi, addirittura, gratis.
“Io non sono di nessuna epoca e di nessun luogo: al di fuori del tempo e dello spazio, il mio essere spirituale vive la sua eterna esistenza”
Cagliostro
A cura di Angelo Deiana