Matteo Achilli: “Noi Millennials che non ci arrendiamo”
Matteo Achilli, il successo non ha età
Chi, negli ultimi mesi non ha sentito parlare di Matteo Achilli, alzi la mano. Lo so, sarete in pochi ad averlo fatto. La sua storia è ormai divenuta un esempio per tutti coloro che hanno un progetto e desiderano realizzarlo, pur non avendo i mezzi economici. Matteo Achilli ha fondato Egomnia a soli 20 anni. Come?
La sua è una vicenda talmente interessante che è già finita in un libro, pubblicato da Rizzoli, e più recentemente addirittura nelle sale cinematografiche, grazie ad Alessandro D’Alatri, che ne ha fatto un film. Ma è sufficiente tutto questo per conoscere davvero Matteo Achilli? Noi lo abbiamo intervistato all’indomani dell’uscita del film, per conoscere l’uomo ed il manager che c’è dietro la figura di questo ragazzo, che, a soli 25 anni, è già divenuto un punto di riferimento per molti giovani e non solo…
La nostra intervista a Matteo Achilli
La prima domanda che mi viene da farle è: al di là del successo economico, professionale e della notorietà acquisita con il film ed il suo libro, chi è Matteo Achilli?
Un ragazzo classe 1992 che è nato nella periferia di Roma. Ex agonista di nuoto. Non è né un genio né un mago del computer, le sue uniche qualità sono una smisurata ambizione, la voglia di non arrendersi mai, di rimboccarsi le maniche, di non pretendere, di non lamentarsi e una buona capacità nel parlare, presentarsi e curare i rapporti.
Ripercorriamo la sua storia: dalla periferia romana, alla Bocconi, fino alla fondazione di Egomnia. Quali sono stati i momenti clou?
A 18 anni ho smesso di nuotare e il nuoto mi ha fatto capire che senza l’allenamento il talento non basta. A 19 anni ho passato il test all’Università Bocconi e ho deciso di trasferirmi a Milano, che ritenevo la città giusta dove lanciare un progetto. A 20 anni ho lanciato Egomnia S.r.l., la mia azienda che ha cambiato totalmente la mia vita.
Come nasce l’idea di Egomnia?
Durante l’ultimo anno di Liceo ho notato come io e i miei compagni di classe, che al tempo dovevamo scegliere che studi intraprendere una volta ottenuto il diploma, eravamo influenzati dalla posizione che un’Università aveva all’interno delle classifiche che venivano stilate. Così mi sono chiesto: perché non esiste una classifica di studenti? Magari allo stesso modo le azienda potrebbero essere agevolate nella selezione del candidato dalla posizione che questo ha all’interno della classifica. È stata l’introduzione del merito all’interno del processo di recruiting. Da allora l’idea si è evoluta molto ed è un’idea vincente a cui Egomnia deve tutto.
Cosa rappresenta oggi?
Ad oggi Egomnia è un’azienda italiana, sana e pronta a crescere. Il fatturato va dai 300 ai 400 mila Euro. È un miracolo se si pensa che è nata come un progetto liceale per cui sono stati investiti solamente 10.000 Euro, presi dalla liquidazione di mio padre che al tempo aveva perso il lavoro.
Qual è il funzionamento di Egomnia e cosa offre in più rispetto ad altri servizi di recruitment?
Egomnia offre tre servizi. Il primo è un pre-screening dei curricula. Ovvero realizza una classifica di persone sulla base di quello che l’azienda sta ricercando. Il pre-screening viene realizzato grazie ad un algoritmo quantitativo. Poi Egomnia ti permette di ricercare nella tua lingua ottenendo risultati di curricula scritti in lingue diverse (ad oggi 7 lingue). Abbiamo inoltre comparato i vari sistemi accademici del mondo. Questi servizi sono molto utili per le grandi aziende che ricevono ogni anno decine di migliaia di application in lingue diverse e non sempre con i requisiti richiesti.
Quali sono le esigenze dei giovani di oggi nel lavoro? E quali quelle degli over 30?
È un mondo che evolve in fretta. Ecco che la formazione, sempre importante e fondamentale, non è più l’elemento che fa la differenza. Il candidato deve essere bravo a dimostrare la sua capacità di adattarsi a questo mondo sempre più globalizzato e competitivo, ad esempio conoscendo lingue o avendo fatto esperienze all’estero. In pratica l’”essere” diventa importante quanto l’”avere”.
Chi sono i Millennials di oggi?
Ragazzi che, soprattutto in Italia, non vivono un bel momento storico. Una disoccupazione giovanile altissima che fa nascere le figure degli sfiduciati e dei NEET. Siamo una generazione più povera dei nostri nonni. Ma non dobbiamo arrenderci.
Su cosa si deve puntare oggi, secondo Lei, per arrivare ad un successo tale da consentire di vivere in quest’epoca serenamente?
Si deve puntare sulle proprie capacità e le caratteristiche vincenti che si hanno. Inoltre bisogna capire il proprio posto nel mondo e cercare di lavorare sempre al meglio. L’unico modo per capirlo è mettersi in gioco e seminare quanto possibile. Bisogna essere molto attenti però a non fare confusione tra passione e talento. Si può essere appassionati di tennis, ma se non si ha il talento non si potrà mai diventare un tennista professionista e bisogna quindi avere la maturità di capire anche i propri limiti.
Veniamo al film “The Start Up”: cosa ha pensato quando glielo hanno proposto?
Che anche in Italia succedono piccoli grandi miracoli. Grandi case di produzione e distribuzione e un importante regista come Alessandro d’Alatri che realizzano un film sulla storia di un ventenne interpretato da un suo coetaneo, è rivoluzione. Il messaggio che il film lancia serve ai giovani italiani che, come detto prima, non vivono un bel momento storico.
Indubbiamente le ha dato una notorietà ancora maggiore rispetto a quella che già aveva: è stato un bene o un male?
Sicuramente per un imprenditore è meglio mantenere un low-profile per non dar fastidio ai propri stakeholder. Tuttavia il messaggio che ha lanciato il mio film e l’omonimo libro edito da Rizzoli ha toccato i cuori di molti giovani e questo ha reso il tutto sensato.
Qualcuno ha mosso critiche sulla effettiva validità del suo lavoro: perché secondo Lei?
Invidia. Ormai ho ricevuto ogni tipo di screening e l’azienda è un’azienda sana.
Essere definito come il Mark Zuckerberg italiano, è stato per Lei più un onore o un peso?
Un peso che però mi ha fatto brillare.
Come si vede tra 20 anni?
Un imprenditore attento al sociale e pronto ad ascoltare i giovani. Alla fine l’importante non è guadagnare miliardi, ma migliorare le vite di quante più persone possibili grazie al tuo operato.
Alcuni manager sposano il proprio progetto iniziale per la vita: per lei sarà così o magari tra qualche tempo deciderà di creare una nuova realtà in settori differenti?
Mi piacerebbe concludere con ciò che ho iniziato. Sperando che questo mio romanticismo verso la mia azienda non sia un limite per quest’ultima.
Tratto da Uomo&Manager di Maggio 2017