Quiet Quitting? La soluzione può essere trovata in… casa!

Quiet Quitting

Avete mai sentito nominare il termine Quiet Qutting? Si tratta di un fenomeno molto frequente in questi ultimi anni ed è definibile come una sorta di abbandono necessario motivazionale da parte dei dipendenti verso il proprio incarico, ovvero lavorare nei tempi e nei modi indicati dal contratto certamente, ma senza coinvolgimento emotivo e senza assumersi responsabilità che vadano oltre l’essenzialità delle mansioni. 

Ed è ecco che, necessariamente, le aziende si trovano costrette a rivedere i propri criteri per attrarre talenti.

Secondo gli esperti del settore una soluzione può essere rappresentata dai nuovi trend internazionali dell’”Internal Reshuffle” e del “Quiet Hiring”, ovvero metodologie lavorative secondo le quali alcune aziende riescono a ricollocare le risorse al proprio interno, con diversi compiti e responsabilità.

In particolare, secondo una ricerca di Workplace Intelligence il 74% dei dipendenti Millennial e Gen Z ha intenzione di lasciare il posto di lavoro entro fine anno perché non vedono la possibilità di nuovi sviluppi di competenze e quindi della propria carriera professionale. “Questi processi sono molto sottovalutati dalle aziende ma sono in grado di offrire molteplici vantaggi”,spiega Francesca Verderio, Talent Acquisition Manager di Zeta Service Individua, la business unit di Zeta Service che guida le organizzazioni nella ricerca e selezione di nuovi talenti. “Da una parte aumenta la fidelizzazione e la loyalty del dipendente che viene formato sul nuovo ruolo professionale conoscendo già le dinamiche aziendali. Dall’altra parte le organizzazioni traggono vantaggio dalla legacy verso l’azienda che i talenti mettono in campo, risparmiando tempo e costi nel reclutamento di una nuova risorsa. Senza dimenticare un vantaggio ancor più importante ovvero la dispersione del know how presente in azienda”. 

La conferma da uno studio di LinkedIn

A conferma di ciò arrivano anche i risultati del Workplace Learning Report di LinkedIn, secondo il quale i dipendenti a cui viene data la possibilità di un nuovo incarico all’interno dell’organizzazione hanno una probabilità 3,5 volte maggiore di rimanere in azienda. Se, prima della pandemia, solo il 16% dei processi di selezione si concludeva con la riqualificazione di una risorsa interna, a partire dal 2021 la “talent mobility” aziendale è arrivata a pesare quasi il 20% delle selezioni. Si tratta di una piccola crescita (+25%) ma è il segnale che qualcosa sta cambiando.

“Qui è fondamentale il ruolo di consulenza delle società di selezione del personale che devono essere in grado di abilitare questi processi nelle organizzazioni sbloccando la mentalità aziendale e avvalendosi di strumenti tecnologici di talent intelligence in grado di trovare il profilo migliore. Ogni ricerca presuppone la volontà da parte di azienda e candidato di crescere e migliorare: quando ai dipendenti già presenti all’interno dell’organizzazione viene data l’opportunità di assumere nuovi ruoli e responsabilità possono portare nuove prospettive e idee. Questo può aiutare un’azienda a rimanere innovativa e ad adattarsi ai cambiamenti del mercato”, spiega sempre Verderio.

Inoltre, secondo uno studio internazionale ripreso da recruiter.com, il 41% dei dipendenti chiederà quest’anno un cambio di ruolo. Un altro aspetto importante su questo tema riguarda il basso engagement dell’internal mobility nei confronti dei dipendenti: solo uno su tre (33%) si sente incoraggiato a ricoprire nuovi ruoli internamente e solo uno su cinque (21%) si sente di poterne discutere apertamente con i propri manager.

Lo svantaggio della mobilità interna? Potrebbe essere quello di scontentare altri dipendenti, per questo è molto importante che certe dinamiche possano essere chiarite fin dai primi colloqui.