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Pandemia: gli italiani cambiano prospettiva sul lavoro e cercano il cambiamento

La pandemia ci ha cambiati certamente ed ha cambiato anche il modo in cui ci rapportiamo con il lavoro. Secondo il Randstad Workmonitor, l’indagine semestrale sul mondo del lavoro di Randstad, quasi 7 Italiani su 10 hanno ora una nuova prospettiva rispetto al mondo del lavoro e di come esso si adatti ai propri impegni personali (69%), il 21% in più della media globale e il dato più alto fra i principali paesi europei, con i francesi che si fermano al 35%, i tedeschi al 36%, spagnoli e inglesi al 48%. In particolare, il 74% dei lavoratori italiani ha definito più chiaramente i propri obiettivi personali, il 72% ha compreso meglio le proprie ambizioni professionali. 

Numeri che devono far riflettere soprattutto chi oggi il lavoro lo offre: non ci si può oggi stupire di lavoratori che non si trovano se non si assicura una corretta work-life balance.

Emerge dallo studio, a prescindere, il desiderio di un cambiamento sul piano lavorativo. Quasi 1 italiano su 2 (49%) vuole provare qualcosa di nuovo nel lavoro, soprattutto nella fascia di età 25-34 anni. Il 73% si è attivato per migliorare il proprio equilibrio fra lavoro e vita privata, specialmente fra le lavoratrici (75%) e nel segmento dei 35-44enni (78%), e il 74% desidera una maggiore flessibilità in futuro nel proprio lavoro o nella propria carriera. Il 57% si sente stressato da quando è iniziata la pandemia e avrà bisogno di apportare cambiamenti alla propria vita professionale, +8% rispetto alla media globale. 

Ma i cambiamenti sono giù in atto: il 21% ha cambiato lavoro negli ultimi sei mesi (+4% rispetto al primo semestre del 2021), con punte del 43% tra i dipendenti under 25 e fra i lavoratori 25-34enni (31%), il 29% sta cercando nuove opportunità e oltre la metà prenderebbe in considerazione l’idea di un lavoro all’estero se potesse operare completamente da remoto (57%).

Il Randstad Workmonitor ha analizzato l’impatto della pandemia sulle prospettive dei lavoratori in una ricerca condotta in 34 Paesi nel mondo su un campione di oltre 800 dipendenti di età compresa fra 18 e 67 anni per ogni nazione.

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Smartworking, cosa succederà nel prossimo futuro?

Smartworking, cosa succederà ora che la presenza in ufficio sta lentamente tornando ad essere la normalità? In realtà, secondo lo studio dell’Osservatorio sullo Smartworking, non ci sarà un cambiamento radicale in tal senso.

Durante il 2021 con l’adesione alle campagne vaccinali è progressivamente diminuito il numero degli smart worker, passati da 5,37 milioni nel primo trimestre dell’anno a 4,07 milioni nel terzo trimestre. A settembre, infatti, si contano complessivamente 1,77 milioni di lavoratori agili nelle grandi imprese, 630mila nelle PMI, 810mila nelle microimprese e 860mila nella PA. Progetti di smart working strutturati o informali sono presenti nell’81% delle grandi imprese (contro il 65% del 2019), nel 53% delle PMI (nel 2019 erano il 30%) e nel 67% delle PA (contro il 23% pre-Covid).

Il graduale rientro in ufficio tuttavia non vuole indicare un declino dello smartworking, ma al contrario, al termine della pandemia le aziende prevedono un aumento dell’utilizzo di questa pratica rispetto ai numeri registrati a settembre: si prevede saranno 4,38 milioni i lavoratori che opereranno almeno in parte da remoto (+8%), di cui 2,03 milioni nelle grandi imprese, 700mila delle PMI, 970mila nelle microimprese e 680mila nella PA.

Lo smartworking continuerà ad essere utilizzato o sarà introdotto nell’89% delle grandi aziende, dove aumenteranno sia i progetti strutturati sia quelli informali, nel 62% delle PA, in cui prevalgono le iniziative strutturate ma anche molta incertezza sul futuro (un quarto non sa se lo smartworking potrà restare o iniziare nel post-Covid), e nel 35% delle PMI, fra cui prevale un approccio informale (22%) ed è forte la tendenza a tornare indietro (un terzo di quelle che ha sperimentato lo smartworking prevede di abbandonarlo). Le modalità di lavoro in smartworking torneranno ad essere ibride, alla ricerca di un miglior equilibrio fra lavoro in sede e a distanza: nelle grandi imprese sarà possibile lavorare a distanza mediamente per tre giorni a settimana, due nelle PA.

Dati importanti questi che mettono in evidenza come la pandemia, tra tutte le problematiche che ha portato, ha anche voluto mostrare a chi non ci credeva che la modalità di lavoro nota come smartworking non è applicabile solo nelle aziende che “hanno già questa cultura”, ma che tale cultura sia realmente acquisibile.

Una scelta anche per il futuro

Secondo lo studio, l’equilibrio fra lavoro e vita privata è migliorato per la maggior parte di grandi imprese (89%), PMI (55%) e PA (82%). Ma ci sono anche degli aspetti negativi da considerare: nella combinazione di lavoro forzato da remoto e pandemia è calata dal 12% al 7% la percentuale di quelli pienamente “ingaggiati”, il 28% ha sofferto di tecnostress, il 17% di overworking.

“La pandemia ha accelerato l’evoluzione dei modelli di lavoro verso forme di organizzazione più flessibili e intelligenti e ha cambiato le aspettative di imprese e lavoratori, anche se emergono delle differenze fra le organizzazioni che rischiano di rallentare questa rivoluzione – afferma Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working -. Le grandi imprese stanno sperimentando nuovi modelli di lavoro, con la ricerca di nuovi equilibri fra presenza e distanza capaci di cogliere i benefici potenziali di entrambe le modalità di lavoro. In molte organizzazioni, soprattutto PMI e PA, invece, si sta tornando prevalentemente al lavoro in presenza a causa della mancanza di cultura basata sul raggiungimento dei risultati. Un arretramento che si scontra con le aspettative dei lavoratori e gli obiettivi di digitalizzazione, sostenibilità e inclusività del nostro Paese. Ora è necessario costruire il futuro del lavoro sul vero Smart Working, che non è una misura emergenziale, ma uno strumento di modernizzazione che spinge a un ripensamento di processi e sistemi manageriali all’insegna della flessibilità e della meritocrazia, proponendo ai lavoratori una maggiore autonomia e responsabilizzazione sui risultati”.

“Per cogliere tutti i benefici dello smart working serve l’impegno di tutti i soggetti – afferma Alessandra Gangai, Direttrice della Ricerca Smart Working nella PA -. Alle organizzazioni spetta il compito di strutturare progetti coraggiosi, lavorando su policy, tecnologie, spazi di lavoro e stili di leadership; i lavoratori devono allenare skill più adeguate al nuovo work-life balance; i policy maker devono accompagnare questa trasformazione con onestà intellettuale e lungimiranza”.

Investire in immobili conviene veramente?

Un tema tanto dibattuto tra gli investitori o aspiranti tali è quello degli investimenti immobiliari, con tutti i vantaggi ma anche i rischi che ne conseguono.
La pandemia che stiamo affrontando ha messo in ginocchio migliaia di attività che purtroppo non sono state in grado di ripartire dopo quasi dodici mesi di stop, e in certi casi è del tutto comprensibile. 

Abbiamo a che fare con un periodo storico in cui l’incertezza regna sovrana, siamo tutti in balia degli eventi e non sappiamo esattamente come muoverci quando si tratta di investire il nostro denaro, vista la situazione attuale.
Di questi tempi è sempre bene rimanere informati in campo di materia finanziaria. Dopo questa breve introduzione, parleremo delle nuove opportunità di investimenti in campo immobiliare presenti sul mercato, così da rimanere sempre al passo coi tempi.
Il mondo degli investimenti immobiliari negli ultimi anni ha subito parecchie evoluzioni, grazie anche all’avvento della tecnologia che oggi offre diverse opzioni interessanti e vantaggiose anche in questo mondo.
Le classiche tipologie di compravendita, sono ormai note.
Il tipo di investimento immobiliare più noto, anche a chi non ha particolari competenze in questa materia, è sicuramente la compravendita sul mercato libero che consiste nell’acquisto di un immobile, nel valutarne il valore e infine nel rimetterlo in vendita in attesa di possibili acquirenti. 

Abbiamo poi le tanto discusse aste giudiziarie, spesso veri e propri affari per i compratori in cerca di occasioni redditizie. 

Questo metodo di investimento ha preso piede successivamente alla crisi immobiliare del 2008. L’immobile finisce all’asta dopo che vi sono state delle insolvenze da parte del proprietario, per esempio nei confronti della banca che ha concesso il mutuo allo stesso. In questo caso vi sarà una perizia da parte di un tecnico per conto del tribunale che servirà a stabilire, tramite accurate analisi, eseguite da professionisti, il prezzo iniziale dal quale l’asta partirà. Se al primo incanto, non si presenterà nessun acquirente toccherà al giudice stabilire una nuova data di partecipazione che andrà a prevedere un ribasso sul prezzo dell’immobile di circa il 20%, e così fino a quando un compratore non si aggiudicherà l’asta. 

Questa fino a pochi anni fa era la normalità in fatto di acquisti immobiliari, ma non sempre queste classiche opzioni fanno al caso del compratore, e spesso nascondono delle insidie. 

Non è raro che le case all’asta presentino danni che potrebbero richiedere costi di riparazione, cosa che farebbe perdere guadagno all’investitore, specialmente se l’immobile comprato si trovi in una zona periferica meno invitante, e quindi la vendita ne risulterebbe più difficile. 

Da qualche anno però, esistono delle alternative davvero valide e in grado di aiutare gli investitori a trarre guadagno – o, nei casi peggiori, a limitare le perdite da un acquisto sbagliato – di cui ora vi parleremo, in particolare delle due che noi troviamo più appetibili in termini di rendita. 

La prima che andremo a trattare è detta “House Flipping” che tradotto dall’inglese significa “capovolgimento della casa”, e consiste nell’acquisto di beni immobili non proprio in ottime condizioni che sono quindi da ristrutturare, al fine di ottenere una plusvalenza sulla vendita nel breve termine.

In sintesi si tratta di un’operazione di trading immobiliare che richiede fiuto per gli affari, competenze in materia di finanza e davvero tanto intuito. 

Sicuramente non è per tutti, ma se avete le giuste competenze per poterlo mettere in atto questo metodo di investimento potrebbe essere una fonte importante di guadagno diventando per voi un vero e proprio business che potrebbe rivelarsi una scelta vincente, come lo è stata per tanti altri investitori. Dipenderà esclusivamente da voi e da quanta voglia avrete di applicarvi, perché il trading immobiliare non si impara dall’oggi al domani, questo ci teniamo a precisarlo, e prima di buttarsi a capofitto in qualcosa di nuovo è sempre bene avere una buona preparazione di base. 

Un altro metodo d’investimento sta sempre più prendendo piede anche tra i giovani imprenditori nel campo immobiliare, essendo più nelle loro corde visto che in questo caso la tecnologia gioca un ruolo davvero importante. 

Parliamo del “crowdfunding”, che permette, pur non avendo un grande capitale da spendere, di effettuare operazioni immobiliari generando comunque profitto. Questo nuovo modo d’investire è adatto a coloro che non dispongono di grandi somme di denaro ma vogliono comunque entrare a far parte di questo mondo, ma non solo, spesso sono coinvolti anche compratori poco amanti del rischio e che preferiscono investire piccole cifre.
Esistono delle vere e proprie piattaforme immobiliari di crowdfunding che contano sempre più visitatori e utenti. Nello specifico questa soluzione consente, a chiunque abbia del capitale disponibile, di prendere parte insieme ad altri investitori ad operazioni di acquisto, ristrutturazione affidando il proprio denaro a società che se ne occupino al posto loro. Questa soluzione è valida per coloro che, oltre a non amare il rischio, hanno poche competenze in materia finanziaria, anche se suggeriamo comunque di prestare la massima attenzione quando si tratta di affidare il proprio denaro a qualcuno, comprese le società presenti su queste piattaforme.

Articolo realizzato in collaborazione con siinvestimentiimmobiliari.it

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Pandemia e futuro: i lavoratori italiani sono fiduciosi?

Qual è stato l’impatto della pandemia sul mondo dei lavoratori e sulle loro prospettive? Ad analizzare la situazione è stato uno studio condotto da Yonder per conto Workday, società leader delle applicazioni aziendali cloud per la gestione finanziaria e delle risorse umane.

Secondo lo studio, due terzi dei dipendenti nel nostro Paese hanno lavorato da casa (65%), una cifra più alta rispetto alla media di tutti i mercati europei monitorati. Tra questi, il 49% non aveva mai lavorato da remoto prima dell’arrivo del Covid-19, un dato ancora una volta significativamente superiore alla media europea (27%), ma la maggior parte di essi è riuscito a ritagliarsi un proprio spazio di lavoro (79%). 

Circa tre su cinque sostiene di aver avuto una produttività superiore rispetto al passato (56%) e si ritiene meno logorato grazie al lavoro svolto da casa, malgrado l’essere sempre connesso sia stato un grande svantaggio secondo il 59% degli intervistati. Nonostante la situazione, un terzo dei dipendenti ha dichiarato di sentirsi più isolato nella situazione contingente, una percentuale notevolmente inferiore rispetto al resto d’Europa.

Le motivazioni: sono le stesse?

La motivazione però non è mancata anche se due lavoratori su cinque hanno trovato difficoltà, soprattutto nella fascia dei giovani 18-34 anni (47%) e a scendere nelle fasce di età successive (38% fascia 35-54; 32% fascia 55+). In cosa e dove si sono evidenziate le difficoltà? La risposta è nella leadership nei team di lavoro che non sono stati percepiti capaci di rispondere in modo adeguato alla crisi (dichiarato dal 29%). Oltre questo si è aggiunta per molti la paura di non ricevere equi e meritati aumenti di stipendio (19%), apportare cancellazioni di bonus o ritardi (21%), tanto da influenzare le possibili conseguenze sulle scelte del futuro, come ad esempio la valutazione di cercare un nuovo lavoro nei 12 mesi successivi. 

Tuttavia, le remunerazioni non sono state tra le preoccupazioni maggiori. Infatti, quasi la metà degli intervistati (49%) hanno dichiarato di percepire minori opportunità nell’acquisire nuove responsabilità e competenze nel 2020, un dato relativamente importante rispetto alla media europea (38%). I giovani tra i 18 e i 34 anni hanno maggiormente avuto la percezione di vedere sgretolarsi opportunità di carriera e l’acquisizione di competenze (54%) mentre le fasce di età superiori hanno ritenuto che un focus sulla crescita personale della propria carriera fosse egoista vista la situazione.

Leadership, un capitolo a parte

Malgrado la leadership tra i dirigenti italiani nella fascia di coloro che non hanno lavorato da casa si sia dimostrata la più debole in Europa, ha però portato un generico consenso positivo dimostrando caratteristiche quali, al primo posto la competenza (47%), a seguire disponibilità, onestà, collaborazione, affidabilità e attenzione verso i propri dipendenti. 

Tuttavia, benché oltre la metà dei dipendenti abbia percepito un aumento della comunicazione da parte dei propri leader (55%) e una chiara visione a lungo termine (51%), sembra che i loro colleghi europei abbiano performato meglio.

Appena il 28% dei dipendenti italiani si è sentito coinvolto nelle decisioni dei leader in merito al futuro delle aziende e della loro organizzazione. Il merito ai leader, però, è andato ad aspetti importanti come l’aver dato priorità alla salute e alla sicurezza dei dipendenti e soprattutto, l’aver dimostrato spirito aziendale concentrandosi sulle esigenze dell’azienda e non individuale.

Aspettative per il futuro post pandemia

Cosa accadrà nei prossimi 12 mesi? Il 31% si sente intrappolato nel proprio ruolo attuale a causa dell’incertezza economica e la metà non pensa che il proprio stipendio possa subire un incremento (18%). In un futuro più immediato, uno su cinque è pessimista rispetto alla sicurezza dell’attuale lavoro nei prossimi 6 mesi. In particolare, coloro che lavorano nel settore della ristorazione e le donne, dimostrano aspettative più basse. Uno stipendio competitivo è l’aspetto più motivante nella ricerca di un nuovo ruolo (11,2%), seguito da un buon schema di bonus e opportunità di crescita e sviluppo. I più giovani tra i 18 e i 34 anni attestano di essere maggiormente motivati nella ricerca di un nuovo ruolo che ha come obiettivo la crescita e le opportunità di formazione e crescita.

“La pandemia ha creato una situazione di emergenza alla quale tutta la forza lavoro ha dovuto rispondere prontamente in qualche modo”, ha commentato Federico Francini, country manager, Workday, Italia. “In Italia, la leadership delle aziende ha dimostrato di saper fronteggiare velocemente il cambiamento malgrado le forti insicurezze percepite dai lavoratori più giovani. Abbiamo visto quanto incide la motivazione legata alla formazione e allo sviluppo professionale, quanto reskilling e upskilling siano la chiave di un buon equilibrio nelle organizzazioni. Una buona pianificazione è ormai prioritaria”.