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Fatica da riunioni virtuali: ecco cosa pensano i lavoratori

Come abbiamo visto più volte, lo smart working ha portato una vera e propria rivoluzione in alcuni moduli lavorativi. Tanti pro e contro che, a seconda delle personali situazioni, possono determinare il successo o l’insuccesso dello stesso. Tra le lamentale più comuni c’è sicuramente l’idea di dover affrontare riunioni virtuali lunghi, noiose e talvolta inutili.

Uno studio di Passport-Photo.Online ha messo in evidenza come tali situazioni non siano particolarmente apprezzate: l’analisi ha riguardato 1021 lavoratori. L’idea di dover trascorrere un’importante parte del tempo giornate su zoom o altri tool, ha determinato quella definita che viene definita fatica da zoom. Secondo lo studio, un lavoratore medio trascorre 1-2 ore nelle riunioni virtuali ogni giorno. Questo si traduce in 260-520 ore (10,8-21,6 giorni) all’anno.

Quasi 9 lavoratori su 10 (88%) hanno sperimentato, almeno una volta da quando si è passati al lavoro da remoto, la fatica da riunioni virtuali. Alcune volte queste riunioni non si dimostrano nemmeno utili ai lavoratori.

L’insoddisfazione evidentemente sale quando il 77% degli intervistati pensa di essere stato invitato a partecipare a meeting poco rilevanti, e che spesso, secondo il 69%, il proprio capo non è in grado di gestire queste riunioni.

I meeting online non efficaci, comportano anche delle seccature snervanti. Ecco le prime cinque elencate:

1. Connessione internet poco stabile: 50,2%

2. Eco/riverbero quando qualcuno parla: 49,42%

3. Troppo rumore di sottofondo: 49,41%

4. Non prestare attenzione o perdere il filo del discorso di quello che si sta dicendo: 48,92%

5. Dimenticare di mutarsi o togliere il muto: 48,63%

Un altro dato interessante, riguarda il giorno in cui vengono organizzati i meeting. Quelli indicati come i migliori sono il martedì (29%), il giovedì (26%), e il mercoledì (20%). I giorni meno indicati sono invece il lunedì (35%) e il venerdì (31%). E ancora, l’indagine ha rilevato che il 76% dei lavoratori è d’accordo o molto d’accordo nell’affermare che ci dovrebbe essere un giorno a settimana che NON preveda riunioni. Questo consentirebbe ai lavoratori tempo extra da dedicare alle proprie attività quotidiane ma ridurrebbe anche lo stress, aumentando la produttività.

Lavorare in smart working è conveniente. Ecco quanto si risparmia

Lo smart working è sempre più una consolidata realtà per alcune aziende, per altre una modalità di lavoro da attuare in futuro, per molte un sogno irrealizzabile. Eppure lo smart working è uno dei desiderata maggiori per chi è alla ricerca di un lavoro.

Sono circa 3,6 milioni, quasi 500 mila in meno rispetto al 2021, i lavoratori da remoto, con un calo che si registra nella PA e nelle PMI, mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese che, con 1,84 milioni di lavoratori, contano circa metà degli smart worker complessivi. Per il prossimo anno si prevede un lieve aumento fino a 3,63 milioni.

Dati importanti che non possono non essere tenuti in considerazione per chi fa business o vuole iniziarne uno.

L’impatto dello smart working

Operare in smart working può portare ad un risparmio, per un lavoratore che operi due giorni a settimana da remoto, di circa 1.000 euro all’anno per effetto della diminuzione dei costi di trasporto. Tuttavia, nella stessa ipotesi di due giorni alla settimana di lavoro da remoto i costi dei consumi domestici relativi a luce e gas può incidere però per 400 euro: quindi il risparmio complessivo annuo è mediamente di 600 euro.

Per le aziende lo Smart Working permette una riduzione dei costi importante: consentire ai dipendenti di svolgere le proprie attività lavorative fuori della sede per 2 giorni a settimana permette di ottimizzare l’utilizzo degli spazi isolando aree inutilizzate e riducendo i consumi, con un risparmio potenziale di circa 500 euro l’anno per ciascuna postazione. Se a questo si associa la decisione di ridurre gli spazi della sede del 30%, il risparmio può aumentare fino a 2.500 euro l’anno a lavoratore.

Questi sono i risultati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentata oggi durante il convegno “Smart Working: Il lavoro del futuro al bivio”.

“La diffusione delle iniziative di Smart Working negli ultimi due anni ha portato numerose organizzazioni e persone a confrontarsi con un modo di lavorare radicalmente diverso rispetto a quello adottato prima della pandemia – spiega Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working -. Spesso, tuttavia, l’applicazione delle nuove modalità di lavoro si è concretizzata con l’introduzione del solo lavoro da remoto, che ha consentito di gestire le emergenze e supportare il work-life balance delle persone, ma che non rappresenta un ripensamento del modello di organizzazione del lavoro. È il momento di riflettere su cosa sia il ‘vero Smart Working’, che deve essere l’occasione per attuare un cambiamento più profondo, incentrato sul lavoro per obiettivi e una digitalizzazione intelligente delle attività”.

Un aiuto per l’ambiente

Il lavoro in smart working permette anche di salvaguardare l’ambiente: infatti, sempre secondo i dati dello studio, si riducono le emissioni nocive di circa 450 Kg annui per persona. Questo è il risultato di tre componenti su base annua: la riduzione degli spostamenti, che permette il risparmio di 350 Kg di CO2, le emissioni risparmiate nelle sedi delle organizzazioni che hanno introdotto lo Smart Working (pari a circa 400 Kg di CO2) al netto delle emissioni addizionali dovute al lavoro dalla propria abitazione (in media circa 300 Kg di CO2). Considerando il numero degli smart worker attuali pari a 3.570.000 di lavoratori, l’impatto a livello di sistema Paese calcolate sarebbe pari a 1.500.000 Ton annue di CO2. Tale quantità è pari a quella assorbita da una superficie boschiva di estensione pari a circa 8 volte quella del comune di Milano.

Il benessere aumenta

In base alla modalità di lavoro scelta, si possono distinguere tre profili di lavoratori: on-site worker, che lavorano stabilmente presso la sede di lavoro, lavoratori remote non smart, che hanno la possibilità di lavorare da remoto ma non altre forme di flessibilità, e smart worker, che hanno flessibilità sia di luogo sia oraria e lavorano secondo una logica orientata agli obiettivi. Analizzando il benessere dei lavoratori sia dal punto di vista psicologico che relazionale, gli smart worker hanno migliori risultati sia rispetto agli on-site worker sia ai lavoratori remote non smart. Questi ultimi mostrano livelli di benessere più bassi non solo rispetto agli smart worker, ma su molte dimensioni anche rispetto ai lavoratori on-site che non hanno la possibilità di lavorare da remoto. 

Smart Working Award 2022

In occasione del convegno, sono anche stati assegnati gli “Smart Working Award” 2022, il riconoscimento dell’Osservatorio alle organizzazioni che si sono distinte per capacità di innovare le modalità di lavoro con i propri progetti di Smart Working. Baker Hughes è il vincitore dello “Smart Working Award 2022” fra le grandi imprese, Storeis ritira il premio fra le PMI, la Presidenza del Consiglio dei Ministri riceve il riconoscimento nella categoria PA.

Smart working, le aziende stanno valutando cosa fare in futuro

Lo smart working continua a far discutere eppure secondo uno studio diffuso da Aidp (Associzione Italiana per la Direzione del Personale), le aziende hanno ben chiaro cosa fare.

Le norme sullo smart working sono state prorogate fino a giugno prossimo, ma poi cosa accadrà? Secondo il sondaggio il 37% delle aziende ha già definito una policy per il rientro al lavoro al termine della scadenza, il 32% è al lavoro per definirlo, mentre il 30% è attendista e vuole capire se ci saranno altre novità in proposito.

Ma questa modalità di lavoro piace a molte aziende e anche ai collaboratori delle stesse: infatti il 58% circa delle aziende interpellate ha dichiarato che stanno trovando difficoltà ad assumere o trattenere i dipendenti se non con la garanzia di poter lavorare in smart working e oltre l’88% ha confermato che dopo la data del 30 giugno continuerà ad offrire la possibilità di lavorare in smart working e da remoto. Solamente l’11% afferma di essere contrario.  

Il lavoro ibrido appare come un compromesso tutto sommato accettabile: il 38% delle aziende fa sapere che i dipendenti potranno lavorare da remoto almeno 2 giorni a settimana e il 14% almeno 1 giorno a settimana. Negli altri casi, con percentuali minori, si va da 3 ai 5 giorni fino ad una presenza di un solo giorno al mese. Questo il quadro generale emerso dall’indagine a cura del Centro Ricerche AIDP diretto dal prof. Umberto Frigelli

“La modalità di lavoro smart è ormai entrata nel nostro nuovo DNA lavorativo e i dati della nostra indagine lo certificano in modo inequivocabile. Il punto oggi non è più rispondere alla domanda sulla necessità o meno dello smart working ma capire, e in qualche modo prefigurare, un autentico modello di lavoro smart e definire un nuovo equilibrio tra le diverse modalità di lavoro – spiega Matilde Marandola, Presidente Nazionale AIDP -. Non è solo una questione di modalità lavorativa o di norme, tuttavia, ma è anche, e forse soprattutto, un tema culturale. La ridefinizione dei tradizionali confini spazio-temporali dell’organizzazione del lavoro presuppone un adeguamento dei concetti tradizionali del lavoro come ad esempio il tema dell’autonomia e della responsabilità dei lavoratori a fronte di un minor controllo. E il dato della nostra ricerca, in questo senso è confortante laddove si evince che il 75% delle aziende non predisporrà sistemi di controllo da remoto. Ciò vuol dire che siamo pronti a cogliere le opportunità che la nuova sfida lavorativa ci pone”.

Le aziende sono sempre più smart

Le aziende stanno strutturando la propria organizzazione sulla base delle nuove esigenze. Il 30% ha già ristrutturato gli spazi fisici dell’azienda per organizzare il lavoro da remoto e la minor presenza fisica. Il 27% ci sta lavorando. Al contempo il 50% del campione ha già definito i requisiti minimi di idoneità dei locali privati quali luogo di lavoro da remoto ai fini della tutela della salute e sicurezza e il 22% l’ha previsto.

Anche sul diritto alla disconnessione il 42% delle aziende ha dichiarato che sono state introdotte garanzie da questo punto di vista, il 36% ci sta ragionando. Inoltre, il 46% ha intenzione di adottare suggerimenti e buone prassi specifiche per una migliore gestione del lavoro da remoto come per esempio: codici di condotta per i tempi e la partecipazione a videoriunioni, gestione della corrispondenza mail, e cosi via. La stragrande maggioranza, ossia il 75% degli intervistati ha affermato che non ha intenzione di adottare applicativi per il controllo della prestazione lavorativa da remoto.

Insomma, anche ricorrendo a questo nuovo modulo lavorativo, la work-life balance dovrebbe essere assicurata.

Il fenomeno del South Working

Durante i mesi di pandemia, molti lavoratori sono tornati alle rispettive regioni di origine dalle sedi del Nord e estere delle aziende, proseguendo il loro lavoro da remoto: è il cosiddetto south working che negli ultimi 24 mesi ha riguardato il 27% delle aziende. Il fenomeno ha riguardato in prevalenza laureati (93% circa), appartenenti alla fascia di età tra i 18 e i 35 anni (59%), in prevalenza uomini, il 60,5% contro il 39,50% di donne. Dopo il 30 giugno il 15% consentirà ai dipendenti originari delle regioni del Mezzogiorno di continuare il lavoro in south working a fronte del 58% delle aziende che ha espresso un parere contrario. Il 28%, invece, ci sta ancora pensando.   

Gli accordi da prendere

Sempre analizzando i dati dello studio dell’Aidp, solo il 19% delle aziende ha contratti collettivi di regolazione dello smart working contro il 62% che ha dichiarato di non avere accordi il tal senso. Il 19% è ancora in fase di trattativa con i sindacati. Dal punto di vista del testo di contratto individuale sullo smart working da sottoscrivere con i lavoratori il 56% delle aziende ha già predisposto il testo mentre il 28% ci sta lavorando.

Professioni del 2022? Eccone 5 che potrebbero essere davvero molto richieste dal mercato

Sarà l’anno dei professionisti e più in generale di chi si specializza. Questa sembra essere un po’ la tendenza delle professioni del 2022: sarà vero? Beh, ormai manca davvero poco all’arrivo del nuovo anno, ma in tanti sono già al lavoro per capire quali saranno le necessità del mondo del business.

Lavoro digitale, smart working, ibrido: cosa sarà necessario per far fronte alle esigenze del mercato ai tempi della pandemia?

L’agenzia per il lavoro Jobtech ha analizzato gli annunci di lavoro in somministrazione nel mondo del retail, della logistica, del call center, dell’hospitality e dell’Ho.Re.Ca., settori nevralgici della nostra economia, estraendo una sorta di lista con le 5 professioni con più opportunità di lavoro in somministrazione per il 2022: ecco quali sono. 

1. Picker (e packer) per i dark store. I dark store sono la nuova frontiera del digital retail: sono quei punti vendita che si occupano esclusivamente dello shopping online. Secondo le stime di Jobtech questo nuovo settore è pronto ad assumere migliaia di dipendenti in tutta Italia. È prevista la creazione di micro centri di distribuzione di quartiere in cui lavoreranno solo rider, “picker” – persone deputate alla preparazione degli ordini – “packer” (i magazzinieri) e store manager. 

2. Responsabili della logistica, che punteranno sempre più sulla soddisfazione del cliente finale. Il responsabile della logistica di un’azienda diventa una sorta di “responsabile della soddisfazione del cliente”, perché rappresenta l’anello di congiunzione con il consumatore finale, e ne determina per larga parte il livello di apprezzamento del servizio: l’analisi e l’automazione nei centri di evasione ordini aumenteranno la gamma di opzioni disponibili per costruire un carico, pianificare un percorso e confermare la disponibilità del cliente a ricevere la spedizione.

3. Camerieri. Se il settore della ristorazione è stato, nel 2021, al centro di numerosi dibattiti che hanno coinvolto datori di lavoro, associazioni di categoria, difensori del Reddito di Cittadinanza e operatori precari, quel che resta a fine anno è la consapevolezza che la pandemia ha stravolto il comparto, producendo un drastico turnover della forza lavoro. Ciò comporterà, per il 2022, una spinta alle assunzioni di camerieri, barman, chef e pizzaioli. Le opportunità non mancheranno soprattutto per professionisti con esperienza, a cui si devono però garantire tutele e diritti. 

4. Operatori di contact center (da remoto). Una delle cause della Great Resignation, rivelano le analisi, è la richiesta un miglior bilanciamento tra vita e lavoro. Poter lavorare da remoto, in questo senso, rappresenta una forte leva per rendere più appetibile un posto di lavoro: il mondo dei call center sarà davvero tutto da conquistare. Sono sempre di più, infatti, gli annunci relativi a lavori nel customer care o nelle inside sales, ma gestiti completamente da casa.

5. Contabili. Quello della contabilità è un settore che si è rivelato particolarmente appetibile per i lavoratori in cerca nel 2021: in primis le donne e chi cerca opportunità di remote working. Inoltre, nel 2022 i contabili saranno sempre più strategici nel definire un approccio green dell’azienda, identificando le aree in cui è possibile ridurre i consumi e gli sprechi, o promuovendo operazioni volte a ridurre l’impatto ambientale del posto di lavoro.

“Il lavoro in somministrazione rappresenta spesso il punto di partenza, o di ripartenza, della forza lavoro – dichiara Paolo Andreozzi, founder di Jobtech – ed è una buona notizia che per loro il mercato offra numerose opportunità di inserimento. Colmare il mismatch tra domanda e offerta rappresenterà per il 2022 la vera sfida da affrontare per dare spinta allo sviluppo del Paese: in un momento storico di profondo cambiamento il lavoro del futuro dovrà essere ibrido (in parte remoto e in parte in presenza), digitale e sicuro”.

Il lavoro ibrido: l’efficacia nelle presentazioni a distanza secondo Maurizio La Cava

Con il ritorno al lavoro, il mese di settembre torna a proporci come un anno fa un “parziale” ritorno in ufficio.

La pandemia ha cambiato il nostro modo di lavorare, non più così fisico, o almeno solo in parte, permettendoci di lavorare da casa in quello che ci siamo abituati a chiamare “smart working”.

E se da una parte siamo facilitati, dall’altra si perde il contatto con la realtà, la fisicità e lo scambio di emozioni e intese che caratterizzavano riunioni e scambi di chiacchiere davanti alla consueta macchinetta del caffè.

È l’incontro dal vivo che viene penalizzato, non solo per chi lavora, ma anche per chi oramai siede davanti al PC per estenuanti “call” attraverso piattaforme di virtual meeting le cui più note portano i nomi di Teams, Zoom, Meet e altre ancora.

Le presentazioni virtuali hanno di fatto visto crescere il loro utilizzo in modo esponenziale negli ultimi 18 mesi, e se facilitano dislocazioni geografiche, non bisogna trascurare alcuni accorgimenti fondamentali per far sì che gli spettatori da remoto restino attenti e interessati in ciò che condividiamo a schermo, con la stessa analoga efficacia delle presentazioni dal vivo.

Maurizio La Cava, imprenditore, professore aggiunto al Politecnico di Milano e all’Istituto Marangoni, Startup Pitch Strategist al Polihub e CEO e co-founder di MLC Presentation Design, fornisce alcuni spunti davvero molto utili per realizzare una presentazione ibrida di successo in PowerPoint, oltre a una particolare funzionalità legata a Teams, che non tutti conoscono. 

Uno degli esempi più significativi di funzionalità ancora poco note, ma capaci di incrementare il coinvolgimento dell’audience è stato introdotto da Microsoft Teams e consente al presentatore di aggiungere il proprio volto sulla presentazione.

Intervista a Maurizio La Cava

Prof. La Cava, ci spiega meglio nel dettaglio di cosa si tratta?

Una delle più grandi perdite delle presentazioni online è la presenza del relatore, limitato ad apparire in un piccolo riquadro in basso allo schermo. Sappiamo quanto sia importante la comunicazione non verbale di una persona e la sua presenza durante una presentazione ma con l’online tutto questo viene sacrificato. Per questa ragione, i più tecnici sono corsi ai ripari sfruttando tecniche e software avanzati di streaming per dare nuovamente dignità al relatore facendolo apparire più in grande e di fianco alle slide. Recentemente Teams ha rilasciato diverse modalità che permettono di fare tutto questo alla portata di un click. Infatti, grazie alle modalità handout, side by side o reporter è finalmente possibile dare al relatore una posizione di maggior importanza rispetto a quella a cui siamo abituati.

Quali sono i “must have” del presentatore virtuale d’eccellenza?

Io credo che una buona presentazione prenda in considerazione, prima di tutto, l’esperienza che si desidera per la propria audience. La sfida delle presentazioni ibride è legata al dover rivolgersi a due audience distinte, una in presenza e l’altra remoto contemporaneamente. In pratica, dobbiamo passare lo stesso messaggio, con la stessa presentazione, nello stesso momento a due audience che vivono un’esperienza di fruizione completamente diversa. Un presentatore ibrido efficacia ha la sensibilità di tenere sempre a mente chi vede e chi non vede facendo sentire ogni persona che ascolta il protagonista della performance. 

Il modo di presentare da remoto cambia impostazione a seconda dell’audience e del target che ci segue? Si usano gli stessi accorgimenti?

Io credo che ogni presentazione abbia la sua audience ed ogni audience debba avere la sua presentazione. Ogni presentazione è un momento di interazione e condivisione delle nostre idee con un pubblico per cui non si può prescindere dal personalizzare ogni singolo dettaglio in funzione di chi ci sta di fronte. Un bravo presentatore ha la capacità di spostare le luci da se stesso alla sua audience rendendo le persone davvero protagoniste del momento. Una presentazione da remoto richiede capacità ed accorgimenti tecnici ben più avanzati di una presentazione dal vivo e certamente la cura dei piccoli dettagli fa la differenza. Ad esempio, dal vivo bisogna saper dispensare l’attenzione tramite lo sguardo sulle diverse parti della sala, in remoto bisogna fissare l’obiettivo della camera. In remoto bisogna essere in grado di gestire contemporaneamente le interazioni in chat, il software di meeting, la presentazione ed eventualmente un software di regia, dal vivo è tutto molto più semplice. Insomma, la presentazione online richiede delle accortezze speciali legate alla necessità di realizzare un tipo di esperienza diversa ma sempre efficace per la nostra audience. 

Quanto del suo pregresso percorso l’ha aiutata nello studio di una metodologia davvero efficace per “catturare” i suoi interlocutori?

Il mio trascorso professionale è stato fondamentale per identificare la necessità di un approccio innovativo al presentation design che fosse accessibile a chi davvero ne ha bisogno. Molte metodologie per realizzare presentazioni efficaci sono riservate ai creativi tagliando fuori i professionisti nel mondo del business che quanto a creatività scarseggiano. Ho vissuto questa esperienza in prima persona in dei contesti organizzativamente strutturati in cui le presentazioni svolgono un ruolo fondamentale per un efficace funzionamento del business. Ho fondato il Lean Presentation Design per democratizzare la capacità di realizzare presentazioni efficaci in meno tempo aprendo le porte anche ai meno creativi. Si tratta di una metodologia nata nel mondo del business per chi con le presentazioni fa business. 

Ha oltre 10.000 follower su LinkedIn! Hanno a loro volta contribuito a suggerire un percorso di efficacia generale cui attenersi?

Credo piuttosto sia stato il contrario. Il Lean Presentation Design oggi è stato insegnato ad oltre un migliaio di persone in tre continenti nel mondo. Ha trovato risposta alle esigenze comunicative di culture e lingue diverse seppur accomunate da necessità di comunicare per fare business. Il follow su Linkedin è arrivato dopo e cresce costantemente man mano che il Lean Presentation Design viene scoperto e condiviso. 

A suo avviso, resteremo in una forma di presenza assenza virtuale nel nostro futuro?

Difficile potersi esprimere sul futuro in un contesto cosi incerto. Certamente questa pandemia ha trasformato il nostro modo di lavorare aprendoci a scenari prima considerati impossibili. Personalmente, credo che l’iniezione di flessibilità nel modo di lavorare ci poterà ad adottare alcuni cambiamenti in maniera duratura. Per questa ragione credo che se in una prima fase siamo passati da presentazioni dal vivo a presentazioni in remoto, la direzione più probabile è quella delle presentazioni ibride in cui non sarà necessario avere il 100% dell’audience in presenza.

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Smart working: una necessità che per molti è un’opportunità. Eppure…

Lo smart working continua a far discutere, soprattutto in un momento di grande incertezza, non solo lavorativa. E continuano a circolare opinioni su come il lavoro a distanza sia utile e produttivo. Un recente sondaggio di ANRA, Associazione Nazionale dei Risk Manager, e Aon, ha indagato su come sia cambiato il rapporto con lo smart working rispetto al periodo di lockdown e fotografato il nuovo approccio del tessuto imprenditoriale italiano alle modalità di lavoro alternativo.

Chi è rientrato in ufficio e chi continua a lavorare da remoto

Secondo lo studio, è rientrato in modo prevalente in sede solo il 16% dei lavoratori. Gli italiani hanno dunque apprezzato i vantaggi di una maggiore flessibilità lavorativa: potendo scegliere, il 58% dei lavoratori bilancerebbe durante la settimana giornate in ufficio e lavoro da remoto, con una leggera prevalenza del secondo. Pianificazione, gestione e controllo delle attività a distanza sembrano non costituire più una grande difficoltà: se durante il lockdown erano al primo posto delle preoccupazioni dei rispondenti, con il 33%, ora il dato è dimezzato (17%).

Anche la produttività non ne ha risentito: infatti il campione maschile sostiene in misura doppia rispetto a quello femminile, che la propria azienda sia stata impattata in maniera importante dalle problematiche nei rapporti con clienti o terze parti: ne è convinta una percentuale di uomini quasi doppia rispetto alle donne (28% vs 17%). 

Qualche dubbio resta, ma sono in via di risoluzione. Vi sono alcune criticità individuate ad aprile: quelle organizzative e/o di comunicazione interna (27%), e quelle relative allo stato d’animo e ingaggio dei lavoratori (26,7%), entrambi risaliti in classifica rispetto alla prima indagine.

Proprio le fasce più giovani (under 35), insieme alle donne, sono risultate le più sensibili a questi aspetti, con una percentuale maggiore rispetto al campione generale. I dati indicano dunque come la modalità di lavoro da remoto, se da un lato ha superato con successo le iniziali difficoltà pratiche e organizzative, a lungo andare mostri invece criticità nelle modalità di comunicazione e negli aspetti più psicologici e relazionali. 

I dati cambiano profondamente in base alle fasce d’età e al genere. Poco più del 30% degli over 56 tra maggio e settembre ha continuato a lavorare da casa, contro il 60% degli under 35: questo è probabilmente dovuto al fatto che è stato preferito e facilitato il rientro in azienda delle figure chiave e/o apicali, che il più delle volte coincidono con professionisti più maturi. E se più di un giovane su dieci sceglierebbe di lavorare sempre e solo da remoto, la proporzione si inverte tra gli over 56, che invece preferirebbero dove possibile tornare alla scrivania.

Per quanto riguarda lo spaccato di genere, tra maggio e settembre più della metà del campione femminile (54%) ha lavorato a distanza, situazione in cui si è invece trovato poco più di un professionista uomo su tre (35%). È forse una conseguenza di questa disparità anche il fatto che sono proprio le donne (75%) ad affermare di poter svolgere in remoto una quantità maggiore del proprio lavoro, contro il 65% degli uomini. 

Smart working tra vantaggi e svantaggi

Lavorare da remoto e in presenza, alternando le due cose è piaciuto. Quali sono i motivi? Al primo posto la possibilità di costruire un migliore equilibrio tra vita privata e professionale (43%), beneficio principale evidenziato soprattutto dalle fasce più giovani e in particolare dagli under 35 (57%). Seguono l’ottimizzazione del tempo (40%) e la possibilità di gestire con più autonomia gli orari e i carichi di lavoro (34%), un aspetto sottolineato più dagli over 56 e dal campione maschile, e probabilmente frutto di una visione più pragmatica dell’attività lavorativa. Per gli under 35, inoltre, è stato poi molto rilevante il risparmio economico, al secondo posto con il 44%. Un aspetto la cui importanza è stata sottolineata anche dal genere femminile.

È interessante notare come, in generale, gli uomini abbiano dato risposte orientate primariamente agli aspetti professionali e pragmatici, della quotidianità, mentre le donne abbiano assegnato più rilevanza all’ambito organizzativo/gestionale e al bilanciamento tra vita familiare e lavorativa: per una rispondente su tre una delle conseguenze positive del remote working è stato il minore stress (tra gli uomini l’ha citato solo il 23%). Le donne hanno inoltre riscontrato maggiore facilità di concentrazione sul lavoro, in misura doppia rispetto ai colleghi (18% vs 10%).

Al primo posto dei risvolti negativi si trova la difficoltà nel limitare le ore trascorse al lavoro, tuttavia la percentuale di chi lo ha indicato come la problematica principale è diminuita sensibilmente, passando dal 58% al 39%. Verosimilmente, si trattava di un aspetto molto meno gestibile durante il lockdown, dove la possibilità di dedicare tempo ad altre attività era stata sostanzialmente annullata e dunque i tempi dedicati al lavoro prolungati ad oltranza. Al secondo e terzo posto si trovano le difficoltà di interazione e confronto con il team di lavoro e/o con i colleghi (33%) e il senso di solitudine (31%), entrambi risaliti di una posizione rispetto alla prima indagine.

Guardando alle fasce d’età e al genere, lo scenario si fa più variegato: la limitazione delle ore di lavoro è al primo posto delle difficoltà per i lavoratori tra i 36 e i 55 anni e per il campione femminile, mentre, per gli under 35 a pesare maggiormente sono la solitudine e il poco contatto con i colleghi (43%). Gli over 56 mettono invece al vertice le difficoltà di interazione con i colleghi (37%), un risultato molto simile a quello registrato nel campione maschile (35%).

Cosa dobbiamo aspettarci in futuro?

Cosa succederà da qui in avanti? In una fascia temporale tra i 6 e i 18 mesi, più della metà dei rispondenti (52%) prevede di continuare a lavorare in modalità mista, e solo uno su quattro (24%) ipotizza un completo rientro: queste previsioni tuttavia diventano meno probabili man mano che si intensifica la seconda ondata pandemica, dal momento che la scelta di mantenere una prevalenza di remote working dipenderà in larga parte, secondo i rispondenti, dalla volontà di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (65%). Il graduale rientro in sede, invece, nel 48% dei casi viene attribuito alla generale ritrosia culturale del top management, una percentuale che sale al 65% negli under 35. 

“La tecnologia non aspira a spersonalizzare il lavoro, ma si potenzia con l’interpretazione della componente umana, ovvero di lavoratori competenti, motivati e flessibili” sottolinea Enrico Vanin, AD Aon “Credo si andrà via via verso una Leadership Collaborativa, che abolirà statici ruoli e gerarchie e sarà in grado di perseguire risultati ambiziosi per l’azienda e la comunità in cui opera. I leader di domani dovranno essere adattabili e proattivi al cambiamento, curiosi di sperimentare l’inedito e dotati di social intelligence. Quest’ultima skill permette di ascoltare empaticamente le persone con cui si lavora, di sostenerle e spingerle ad esprimere il loro pieno potenziale”. 

Nonostante il 72% sia convinto che questa evoluzione lavorativa avrà conseguenze prevalentemente positive, il 20% degli under 35 ritiene che da qui a sei mesi si tornerà alle modalità di lavoro tradizionali e ampliando l’orizzonte temporale ai 18 mesi la percentuale sale al 27%. Molto diversa è l’opinione degli over 56: solo il 10% di loro ritiene che la modalità in presenza tornerà ad essere quella principale, ed evidenzia che la scelta di riportare i dipendenti in azienda sarà dettata da concrete esigenze operative (45%). Sono inoltre più cauti nel valutare gli impatti del lavoro da remoto: solo il 47% è infatti sicuro che il suo impatto sarà solamente positivo.

Gli uomini sostengono come valida spinta al mantenimento del lavoro a distanza l’aumento della produttività (tra il 10% e il 12%) che invece sembra non aver alcun peso secondo le donne. Le rispondenti, invece, sottolineano come importanti il maggior benessere dei dipendenti (8%).

“Siamo particolarmente fieri del lavoro svolto nel realizzare questa ricerca unica nel suo genere, che ha come obiettivo quello di approfondire come stia reagendo la filiera del risk ed insurance management ad una trasformazione epocale delle modalità di lavoro ed interazione fino a poco tempo fa inimmaginabili”, conclude Alessandro De Felice, Presidente ANRA, “La nostra community, composta da Risk Manager, intermediari, Assicuratori, Periti ed imprenditori ha mostrato una capacità di adattamento molto rapida, seppur con i limiti e le problematiche che analizziamo, e vede un futuro in cui è in grado di selezionare gli aspetti positivi del ‘remote working’ – quali ad esempio l’accelerazione nell’utilizzo delle tecnologie di connessione remota e la gestione del proprio tempo e responsabilità in autonomia – per realizzare un vero ‘smart working’ nella dimensione della nuova normalità.

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Lo smart working e lo spazio di lavoro tra famiglia e… gatti!

Sarà per molti una consuetudine che continuerà per diversi mesi e ne abbiamo più volte messo in evidenza i vantaggi. Eppure, ci sono situazioni in cui l’ufficio ci manca. Il silenzio della stanza, televisioni e radio spente, nessuno che turba la nostra concentrazione. Ma a casa le cose vanno in modo decisamente diverso.

La nostra “casa-ufficio” è un ambiente in cui dobbiamo convivere con situazioni poco professionali. Per questo, InfoJobs, piattaforma per la ricerca di lavoro online, ha chiesto ai propri iscritti come si svolge la vita degli italiani ai tempi del lavoro agile, con una particolare attenzione ai meeting online, che hanno sostituito le riunioni in presenza.

Smart working e spazio di lavoro: i risultati del sondaggio

Il primo dato emerso dall’indagine InfoJobs è che le call e video call sono ormai un’abitudine quotidiana del lavoratore “agile”: se la metà degli intervistati (52%) trascorre al telefono meno di un’ora, l’altra metà vi dedica tra una e tre ore al giorno (34,8%), con picchi di quattro ore e più (13,2%).

E sono video call importanti molto spesso in cui vengono stabilite strategie e programmi aziendali. Farle in casa comporta una serie di precauzioni, partendo proprio dalla scelta del luogo in cui farle. Si cerca un luogo dove l’audio sia perfetto e dove si è sicuri di non essere disturbati (48,5%), ma anche dove ci sia uno sfondo neutro per non far vedere troppo la casa (26,7%) e mostrare la propria sfera intima. Un aspetto curato? Importante (19,4%), ma meglio essere preparati per l’agenda del giorno (22,4%) e non tralasciare nulla.

Top e flop delle video call da casa

Quali sono i tormentoni delle video call fatte dalla proprie abitazioni? Il sondaggio di InfoJobs parla chiaro…

  1. Sei in muto! (55,4%)
  2. Scusate, il citofono! (45,9%)
  3. Chiudo la finestra, oggi i vicini hanno deciso di tenere un concerto / tagliare l’erba / fare i lavori (30,6%)
  4. Prova a togliere il video che magari prende meglio (30,5%)
  5. Non si capisce nulla, parliamo uno alla volta! (29,4%)

I 5 imprevisti più frequenti delle call da casa

Questi sono invece gli “incidenti” che mettono maggiormente in imbarazzo.

  1. Figli che urlano o litigano, giocando o facendo videolezioni (46%)
  2. Familiari di vario genere e con mise improbabili che irrompono nelle stanze-ufficio già occupate, e quindi nello schermo (41,1%)
  3. Sfondo standard, sempre lo stesso angolo di casa, ma con arredamento o dettagli caratteristici (28,8%)
  4. I rumori del collega multitasking: il tramestio dei piatti, l’acqua del bagno, lo sfrigolio del soffritto… (27,6%)
  5. Il gatto che passa davanti al monitor (20,8%)

Alla fine il lavoro va comunque avanti…

Che siano al telefono, via mail o via chat, le richieste dei capi trovano sempre il modo di arrivare e in cima alla classifica della domanda più ricorrente i lavoratori sono d’accordo:  il 53,6% dichiara che i superiori chiedono soprattutto di fissare una video-chiamata di aggiornamento periodica del team, magari per monitorare i progressi di un’attività e valutare insieme opportunità e criticità; segue per il 28,4% degli intervistati l’immancabile last minute, ovvero quella richiesta di report/preventivi o proposte che hanno deadline stringenti. I capi rimangono tali anche a distanza, coordinano e a volte controllano: chiedono email di aggiornamento su progetti speciali (18%), ma anche sulle attività giornaliere con una email di riepilogo (13,7%).

Anche fra colleghi, la richiesta più frequente è un allineamento del team (59,6%), segno che tenersi in contatto ed essere aggiornati è una necessità soprattutto quando non si lavora più fianco a fianco. A seguire troviamo il bisogno di supporto (47,5%) o una proposta di divisioni delle attività per rispettare le deadline stabilite, magari dal capo o dai clienti.

E proprio prima di affrontare il capo, secondo il 14,1% fra “pari” è frequente la proposta di un pre-meeting, in una sorta di… tutti d’accordo sulla versione da raccontare! Solo il 2,5% organizza caffè o aperitivi virtuali, che sembrano non poter sostituire quelli reali nel cuore degli italiani.

Spese per lo smart working e non solo: quanta incertezza!

Lavorare da casa è una necessità per molte aziende e imprese italiane e non solo. Eppure, c’è ancora grande incertezza su come questa fase verrà gestita. E questo non soltanto in Italia, ma anche oltre confine. Il sondaggio “Home Office” di SAP Condur ha indagato sulle spese per lo smart working tra 6.812 dipendenti in 8 mercati europei e rivela che solo il 15% dei dipendenti italiani è stato informato su come gestire le spese durante il lockdown, risultando tra i più disinformati dopo i lavoratori francesi (12%), mentre i più informati sono i lavoratori danesi (24%) seguiti da Svezia e Regno Unito (19%), Germania (18%), Olanda (16%) e Spagna (15%).

Smart working: come sarà il futuro?

C’è poca conoscenza dunque su dettagli non proprio irrilevanti. Ma andiamo nello specifico. Secondo il sondaggio solamente il 34% dei dipendenti italiani è stato informato su quanto tempo passerà ancora a lavorare in smart working, risultando però tra i più consapevoli insieme ai francesi (34%), rispetto a olandesi e spagnoli (30%), tedeschi (28%), danesi (26%), svedesi (24%) e britannici (22%).

Ma veniamo al capitolo spese: anche in questo caso c’è poca chiarezza nel nostro Paese. Sempre tenendo in considerazione i risultati dello studio il 76% dei lavoratori non è sicuro se e quali spese è autorizzato a sostenere mentre lavora da casa; la situazione è migliore negli altri Paesi europei con Olanda (72%), Francia (69%), Spagna (64%), Regno Unito (63%), Danimarca (60%), Germania (58%), Svezia (51%) che mostrano di avere idee più chiare.

Tra i dipendenti italiani intervistati il 42% non è stato informato riguardo i rimborsi relativi all’acquisto di dispositivi software e hardware, necessari per lavorative da casa. Diversa è la situazione nel resto d’Europa: Germania (38%), UK (32%), Spagna (31%), Francia (32%) e Danimarca (27%) non sanno se l’azienda copra spese relative all’elettricità e al riscaldamento, il 23% dei dipendenti svedesi non sa se riceverà il rimborso relativo a spese per mobili per ufficio, mentre nei Paesi Bassi c’è un’incognita sulle spese relative a hardware e software IT (36%). Inoltre, il 31% dei lavoratori italiani afferma, inoltre, di non poter sostenere alcun costo: gli altri Paesi europei invece danno maggiori possibilità, con Spagna (10%), Danimarca (17%), Svezia e Olanda (20%) tra le più virtuose.

Una situazione che ci ha colti di sorpresa

Nessuno si aspettava questa situazione e si cerca costantemente di migliorare le connessioni, collaborare e svolgere il proprio lavoro. Eppure, solo il 39% dei dipendenti italiani ritiene di essere stato preparato a lavorare in smart working prima dell’emergenza sanitaria Covid-19. A livello europeo, i dipendenti svedesi erano i più preparati (52%) mentre la pandemia ha trovato meno organizzati gli spagnoli con il 67% dei lavoratori che non sapevano come poter gestire le attività lavorative in smart working.

Un aiuto? A quanto sembra non c’è. Infatti, in Italia, solo il 77% dei lavoratori ha dichiarato di sentirsi supportato dai propri superiori mentre lavorava da casa. Solo i tedeschi sono meno agevolati (76%). I più compresi sono i danesi (88%) seguiti da Olanda (85%), Svezia (83%), Regno Unito (82%), Francia (81%) e Spagna (79%). 

Come per il resto dei Paesi europei presi in esame, la maggior parte dei lavoratori italiani (58%) ha dichiarato di essere impegnato in regolari aggiornamenti con il team, utilizzando le videochiamate.

Il 17% dei dipendenti italiani ha inoltre sottolineato di ricevere regolari aggiornamenti IT, nonché suggerimenti e trucchi per un efficiente funzionamento degli strumenti di lavoro da remoto.

Insomma, c’è ancora molto da lavorare, da una parte e dall’altra. Il sondaggio EMEA “Home Office” di SAP Concur mostra che solo il 14% dei dipendenti italiani ritiene che il proprio datore di lavoro mostri comprensione per i doppi oneri (come assistenza all’infanzia o alle persone a carico) e che solo il 21% è stato informato dell’orario di lavoro del proprio ufficio durante il lockdown.

Smart working kit: il nuovo concept Pininfarina per lavorare da casa

L’esigenza di lavorare in smartworking comporta inevitabilmente anche la necessità di avere a disposizione tutto ciò che serve per lavorare da casa come in ufficio. Per questo Pininfarina Architettura ha messo a disposizione la propria esperienza, proponendo la propria visione, volta al miglioramento del lavoro agile attraverso lo studio di nuovi scenari per la definizione un’esperienza lavorativa piacevole e capace di adattarsi a spazi diversi.

Lo smart working kit per lavorare da casa come in ufficio

L’azienda ha messo a lavoro un team di esperti per elaborare una sorta di smart working kit (sviluppato in sinergia con GET e Ni.Do, due studi di design), composto da elementi modulari altamente riconfigurabili, utilizzabili in sinergia o in maniera autonoma, per trasformare qualsiasi ambiente in un ufficio.

Il kit si compone di moduli componibili in grado diventare oggetti d’arredo e al tempo stesso essere trasportati ovunque, magari per spostamenti di lavoro.

Ma quali sono le componenti dello smart working kit? C’è un supporto per laptop, una CPU dotata di piccolo schermo, un proiettorecasse e microfono con sistema di cancellazione dei rumori, un purificatore dell’aria, delle luci ed un supporto per il riscaldamento o il raffreddamento di bevande. Mica male no?

Smart working in vacanza: sarà una tendenza di questa estate?

Smart working in vacanza: potrebbe essere una soluzione

Dopo i mesi di stop forzato per molte categorie di lavoratori, pensare alle vacanze estive sembra davvero azzardato, in quanto il lavoro da fare è davvero tanto. Eppure potrebbe esserci una soluzione…

l claim “Ieri in ufficio. Oggi naturalmente al lavoro” è indicativo dell’iniziativa attraverso la quale Club del Sole ha istituito un modello di smart working innovativo, attrezzando i villaggi di tutte le dotazioni necessarie per la massima sicurezza e soddisfazione degli ospiti: autentiche oasi di tranquillità pensate per favorire la concentrazione di chi deve lavorare, connessioni WI-FI ad alta velocità nelle mobilhomes, food delivery direttamente in bungalow, servizio stampa documenti, fast check-in, igienizzazione degli alloggi e monitoraggio degli accessi agli spazi comuni, ecc.

“Club del Sole mette a disposizione dei propri ospiti oltre 1 milione di mq distribuiti in 15 camping villages tutti in Italia – dichiara Giovanni Cavalli, Consigliere Delegato di Club del Sole. Le nostre strutture sono strategicamente  posizionate sulle più belle spiagge e nelle oasi più naturali in ben 6 regioni italiane,  spiega Cavalli –in contesti sicuri e rilassanti da vivere in compagnia. Lo Smart Working Village, che abbiamo studiato ad hoc per chi vuole coniugare vacanza e lavoro, permetterà di far fronte alle esigenze lavorative e al desiderio di vacanza studiato apposta per l’estate 2020. Stiamo verificando con i nostri consulenti l’ampliamento dei benefit per un ideale Smart Working nelle nostre strutture  conclude Cavalli e far fronte alle esigenze di ogni professionista con sistemi informatici, strumenti all’avanguardia e personale dedicato per consentire un ‘rilassante’ lavoro anche in vacanza”.

Conciliare lavoro e vacanza potrebbe dunque non essere un’utopia. Lo smart working potrà continuare ad essere ancora protagonista delle nostre giornate, anche di quelle estive, conciliando le esigenze lavorative a quelle familiari di ogni azienda e lavoratore.

La ripartenza è vicina: è il momento di pensare a quello che verrà

I dati ci dicono ormai da giorni che la situazione, in Italia, sta migliorando. Con la consapevolezza di avere alle spalle il momento peggiore della crisi sanitaria, è arrivato il momento di pensare a quello che verrà.

In questi giorni si moltiplicano le voci di chi, dentro a questo dramma che ha travolto e sta travolgendo il mondo, vuole scorgere un’opportunità, e se non un’opportunità, come minimo un importante momento di riflessione. Questo dovrebbe valere a tutti i livelli, da quello politico a quello professionale, con le aziende stesse chiamate a ripensare alcuni metodi, e soprattutto a pianificare la ripresa.  Meglio: a pianificare il modo in cui affrontare la ripartenza. Mettendo da parte facili pessimismi.

Certo, non è semplice: riprendersi da questo shock non sarà una passeggiata per nessuno, men che meno per il mondo delle imprese. I dati ci dicono che la situazione è e sarà molto complicata: Bankitalia ha spiegato che ogni settimana di lockdown costa al nostro Paese lo 0,5% del Prodotto interno lordo annuo, ovvero all’incirca 9 miliardi di euro. Si stima una caduta del Pil di circa il 5% nel primo trimestre, decremento che si ripeterà anche nel secondo trimestre.

Difficile, insomma, guardare con il sorriso al dopo, a quella che in questi giorni continuiamo a chiamare “ripresa”, “ripartenza”. Eppure è proprio questo che siamo chiamati tutti a fare, auspicabilmente in tempi brevi: ripartire. E per farlo è necessario, come anticipato, mettere da parte il pessimismo, nonché sgombrare la mente e mantenere i nervi ben saldi. Non è impossibile: di motivi per essere fiduciosi nel futuro, infatti, ce ne sono anche nel mondo delle imprese, e non sono nemmeno pochi. Basta aguzzare un poco lo sguardo

Non tutto si è fermato, anzi. In molti casi questa crisi è stata affrontata con grande audacia, con realtà piccole e grandi che hanno mutato modalità lavorative per poter continuare a lavorare, mentre altre hanno deciso di cambiare in modo importante anche i prodotti e i servizi offerti, adattandosi alle esigenze straordinarie di questo periodo.

Sono tantissime le aziende che non hanno smesso nemmeno per un attimo di guardare al futuro. Pur in queste settimane di lockdown, per esempio, l’agenzia di selezione del personale Adami & Associati ha continuato a selezionare – ovviamente da remoto – i migliori talenti per le aziende clienti, a livello nazionale e internazionale. In molti casi si è proceduto con la selezione di profili che sarebbero stati ricercati anche senza alcuna crisi sanitaria, mentre in altri è stato offerto il supporto di head hunter per individuare delle figure specializzate per affrontare al meglio l’emergenza Coronavirus, la quale in molti casi si è tradotta in un aumento del lavoro oppure in una trasformazione radicale della produzione. Nella maggior parte delle situazioni, il primo passo per superare questo momento è stato quello di cercare le competenze giuste, inserendo nuovi capaci professionisti nel proprio team.

Sono tante le realtà che, di fronte al lockdown, hanno saputo reinventare il proprio modo di lavorare, scoprendo e sviluppando tecniche e strumenti che risulteranno preziosi anche in futuro. Parliamo certamente delle tantissime aziende che hanno continuato a lavorare in regime di smart working, scoprendo così, seppure in modo inizialmente traumatico, i tanti vantaggi del lavoro agile. Ma parliamo anche di tutte le aziende che in queste settimane hanno trovato un altro modo per offrire i propri prodotti e servizi, dagli psicologi che hanno avviato delle sedute individuali in videoconferenza agli esercizi commerciali che hanno deciso di darsi alle consegne a domicilio, spesso con l’avvio di nuovi negozi digitali che, in altre situazioni, mai sarebbero stati lanciati.

La ripartenza, che già adesso la maggior parte delle imprese stanno preparando, dovrà essere fatta a partire dal capitale umano, e quindi dalle competenze e dall’esperienza, ma anche dalla voglia di fare e dal coraggio.

La sfida che si para davanti a noi non sarà facile. Riusciremo a superarla puntando sulle persone, sulle capacità di ogni singolo professionista, sui talenti. Sono questi, infatti, che ci permetteranno di superare l’attuale pandemia e la conseguente crisi economica: su questo non ci sono dubbi.

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Lo smart working può essere un modello anche per il futuro?

A oltre un mese dallo stato di emergenza causato dal Coronavirus e la conseguente necessità di ricorrere allo smart working per lavorare, ci si comincia a porre qualche domanda sul futuro. Lo smart working potrà essere usato maggiormente a prescindere dall’emergenza?

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