Verso il mondo 5.0. Cosa significa e come prepararsi al cambiamento

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Pandemia, guerra, rivoluzioni tecnologiche, nuovi ordini mondiali, migrazioni epocali. In sintesi, stiamo entrando nel Mondo 5.0. Ma la domanda che ci dobbiamo porre è una sola: con quale management dobbiamo provare a gestire questi macro-trends e a quali leadership dobbiamo fare riferimento?

Perché il Mondo 5.0 è denso di opportunità ma anche di incognite. Un mondo veloce, complesso e rischiosissimo perché disruptive. Il World Economic Forum ci dice che il 65% dei bambini che iniziano oggi ad andare a scuola farà un lavoro che ora non esiste quando terminerà il proprio ciclo di studi. 

Anche perché il mercato del lavoro dei Paesi avanzati si evolve verso una fortissima polarizzazione. In alto, le professioni eccellenti, i progettisti, i decisori, gli innovatori; alla base, i mestieri accuditivi, di assistenza, di empatia. In mezzo, praticamente niente, solo macchine. La classe media è ormai collocata nei Paesi emergenti, mondi in cui il costo del lavoro e le condizioni socio-ambientali sono più competitive. È il modello Apple: si pensa da una parte, si produce dall’altra.

Poi c’è il problema della velocità. Le vecchie rivoluzioni industriali erano lente, si sviluppavano in un arco temporale al di fuori della normale aspettativa di vita di ognuno di noi. Questa rivoluzione si gioca invece in un tempo molto più breve e ci racconta che, se si inventano nuovi mercati (Uber, Airbnb), si dà vita ad una nuova catena di valore in cui le vecchie competenze vengono spazzate via in un attimo dalla “disruptive innovation” e dalle piattaforme.

Una sola conseguenza: il rischio di diventare rapidamente obsoleti è altissimo. L’Istat dice che fra i 7 e i 9 milioni di posti di lavoro che potrebbero essere sostituiti dalle macchine nel nostro Paese nei prossimi 7-10 anni. Altri dicono 5, altri ancora 11. Saranno 5, 7 o 11? 

Non lo sappiamo ma il numero non conta perché l’enormità del problema non cambia. Un problema, quello della sostituzione tecnologica, che ci dovrebbe porre una domanda pragmatica che è solo sfiorata nei dibattiti: si può provare a reagire? 

Dobbiamo essere brutali: vale sempre la regola dell’80-20. Qualsiasi sia l’attività svolta, la letteratura scientifica ci dice che l’80% delle attività quotidiane di ciascuno di noi sono routinarie e solo il 20% sofisticate. Una regola che vale per tutti: dalle professioni più avanzate ai mestieri più semplici. Una sola conseguenza: tutte le attività routinarie sono o saranno sostituibili nei processi evolutivi dell’Intelligenza Artificiale dei prossimi anni. 

La sfida non è allora tecnologica ma culturale. Dobbiamo lavorare su quel 20% di attività più sofisticate. Il che non vuol dire solo approfondimenti di competenze verticali, ma soprattutto implementare i processi formativi di quelle “soft skills” che non saranno mai sostituibili dalle macchine: i processi di empatia/passione e le capacità tecniche di interazione, change management, comunicazione, marketing. 

Perché, anche se robotica e AI si impadroniranno dell’ambiente di lavoro, le soft skills faranno parte di quegli aspetti “irriproducibili” che qualificheranno comunque quel lavoratore/professionista.

Tutto ok, dunque? No, purtroppo, perché si tratta di agire con persone che stanno lavorando in questo momento. Investire sulla loro “riconversione” attraverso la formazione vorrebbe dire sottrarre tempo a quello che tali soggetti impiegano ogni giorno in azienda. Ad esempio, uno dei temi strategici è quello della lingua inglese. Mandiamo i lavoratori a fare un anno sabbatico in un paese anglosassone? E la loro impresa come va avanti? Oppure gli facciamo fare un corso tutte le sere dopo il lavoro? E dove troviamo poi anche il tempo di sviluppare le loro soft skills?

Se pensiamo al passato, siamo spacciati. Bisogna invece trovare il sistema di recuperare una parte di tempo di questi soggetti a rischio di sostituzione. Crediamo che ci sia solo una soluzione: incentivarli in modo diretto o indiretto ad investire in modo innovativo il proprio tempo libero in processi formativi. 

Ad esempio, sfruttando quella parte di tempo che passiamo alla tv, sui social e nel gaming on-line. Investendo risorse in piattaforme di gioco in cui sviluppare competenze soft e/o di auto-imprenditorialità collegandole a livello progressivi di approfondimento. Una specie di “Super Mario” o “Sudoku” della formazione “soft” collegato ad un credito di imposta (incentivo statale) o a un meccanismo di cashback (incentivo privato finanziato da sponsor alla ricerca di nuovi clienti). 

Sono solo alcuni suggerimenti pragmatici e chiaramente non esaustivi. Ma bisogna muoversi in fretta perché si tratta di processi di medio/lungo periodo che impattano famiglie e soggetti mediamente a competenze più deboli. 

Che rischiano di trasformare una grande rivoluzione positiva in un orizzonte da medio evo prossimo venturo. 

Un gioco può essere descritto in termini di strategie che i giocatori devono seguire nelle loro mosse: l’equilibrio c’è quando nessuno riesce a migliorare in maniera unilaterale il proprio comportamento. Per cambiare, occorre agire insieme

John Nash

A cura di Angelo Deiana